Il violino: un contributo ebraico al tango

Secondo lo studioso di tango Miguel Gadea Sandler, il violino fu il principale contributo  che l'immigrazione ebraica diede al tango rioplatense, tra la fine del XIX secolo e l'inizio del XX.


Non era difficile trovare un ebreo con un violino sotto il braccio in quel momento. 
Riferendosi all'occultamento dell'identità ebraica, ricordò che Roberto Beltrán in realtà si chiamava Leon Zuker e Julio Jorge Nelson era Isaak Rosofsky; a dimostrazione della presenza ebraica nella creazione e nel rafforzamento del tango. Citò Max Glucksmann, pioniere del cinema nazionale, dell'industria discografica, delle competizioni di tango e responsabile delle tournée e delle registrazioni in cui si esibirà Carlos Gardel. Sostenne che in questo tipo di musica non c'era discriminazione, e che il cambiamento dei nomi era dovuto al fatto che i nomi ebraici non erano molto commerciali, in Argentina.

Dalla fine dell’ 800 fino alle prime decadi del ‘900 arrivarono in Argentina migliaia di famiglie ebree provenienti principalmente dalla Russia e dalla Polonia che scappavano dalle persecuzioni zariste (pogrom). Era un periodo favorevole, molte leggi proteggevano l’immigrazione.
Non è un mistero che la predisposizione del popolo ebraico verso la musica generò nella storia grandi artisti come Jasha Heifetz, Yehudi Menuhin Daniel Baremboin, Itzhak Perlman, Arturo Rubinstein, Vladimir Horowitz, Isaac Stern, Leonard Bernstein, George Gershwin e tanti altri. Infatti, una volta stabiliti nella capitale argentina, molti genitori mandavano i propri figli a studiare con l’idea di far loro intraprendere un cammino nel mondo della musica classica , ma molti si rivolsero al tango per amore verso questa musica e perché offriva più possibilità lavorative.
Molto accreditata è pure l'ipotesi che saper suonare poteva significare una chance di sopravvivenza.

Nall'aprile del 2013  l’argentino Hugo Aisemberg pianista e direttore artistico del centro Astor Piazzolla di Ferrara, presenta il libro “Il ballo proibito. Storie di ebrei e di tango” scritto da Furio Biagini. Questo testo ha fatto luce sulla presenza nel mondo musicale argentino della comunità ebraica.

«L’emigrazione ebraica – ha ricordato Aisemberg – iniziò nel 1880 legata a due situazioni: la fuga dalle persecuzioni in Russia e l’accoglienza in Argentina degli immigrati. La maggior parte si affermò nel mondo dell’economia, come fece la mia famiglia».

Il libro, che inizia col racconto di giovani ragazze portate da ebrei senza scrupoli, a prostituirsi, aveva disorientato Aisemberg che aveva pensato addirittura che l’autore fosse antisemita, invece Biagini, come lui stesso ha poi raccontato, aveva scoperto questo traffico di donne durante i suoi studi sull’emigrazione del movimento anarchico ebraico in Argentina. Affermó che si trattasse di un mero evento marginale in quanto la stessa comunità ebraica allontanò poi queste persone, considerate indegne. Quello che invece chiarì la sua ricerca fu la corrispondenza fra i genitori ed i figli degli immigrati che si dedicarono subito alla musica ed in particolare al violino. Per le loro qualità interpretative furono inseriti nelle orchestre e nel mondo del tango, in modo per integrarsi con gli argentini.
 
Dai remoti inizi, ancora prima del bandoneon e del pianoforte, il violino apparteneva
già al tango integrando, come abbiamo visto, i primitivi trii, con l'uso del flauto e dell’arpa (dopo sostituita dalla chitarra). La formazione dei sestetti negli anni venti e trenta era costituito da due violini, due bandoneon, contrabbasso e pianoforte.
Il violista Juan Lucas Aisemberg ed il pianista Hugo Aisemberg si dedicarono per molto
tempo all’approfondimento e alla diffusione della cultura musicale argentina e di quella ebraica.
Hugo Aisemberg nato a Buenos Aires in seno ad una famiglia ebreo-russa arrivata in Argentina all’inizio del 900’, risiede in Italia ed ha insegnato per oltre trent’anni al Conservatorio “G.Rossini” di Pesaro, ha svolto una intensa attività concertistica in tutto il mondo, presidente e direttore artistico della “Associazione Culturale Astor Piazzolla” risiede attualmente a Ferrara.
Juan Lucas Aisemberg nato a Budapest, ha frequentato la “International Menuhin Music Academy” di Gstaad (Svizzera), risiede a Berlino dove ha studiato presso la “ Hochschule Der Kunste” con il M° Bruno Giuranna. Suona nell’orchestra della “Deutsche Oper”, è prima viola della “Deutsches Kammerorchester” di Berlino e componente del "Trio Tangele“, con repertorio di musiche scritte nei campi di concentramento.



 Questi artisti hanno realizzato un grande lavoro di ricerca per quanto riguarda la musica ebraica classica e popolare in Europa, cultura che è stata portata in Argentina dai migranti ebrei e trasmessa al tango attraverso un'importante processo di integrazione.

Amnon Weinstein è liutaio, come suo padre Moshe, emigrato dalla Germania in Palestina nel 1938 per sfuggire al nazismo. La Shoah è un argomento tabù nella sua famiglia, sterminata nelle camere a gas. Sotto il sole di Israele Amnon pensa al suo mestiere di costruttore di violini, appreso in casa e specializzato a Cremona. Ma la storia bussa alla sua porta. Un sopravvissuto dell’orchestra di Auschwitz gli chiede di riparare il suo strumento che vuole donare al nipote. Quando Weinstein apre il violino vi trova cenere. Quella dei forni crematori.«Fu uno choc – dice – ma all’epoca non mi volevo occupare di questo genere di cose: troppo doloroso». Ma quello strumento e la sua storia gli entra dentro. E a partire dagli anni ’90 comincia a inseguire, collezionare e restaurare i violini della Shoah, che lui ribattezza i "violini della speranza". Oggi sono oltre cinquanta gli strumenti raccolti e curati da Weinstein. Ci sono violini e violoncelli appartenevano a persone di cui si conosce il nome, a volte anche l’aspetto. Alcuni di loro hanno accompagnato con il loro suono l’orrore di chi marciava verso le camere a gas. Ci sono poi i violini senza proprietari, che dopo l’emigrazione smisero di suonare, troncando quello speciale legame che c’è tra mondo ebraico e musica. Altri ancora sono legati alla nascita della Israel Philarmonic Orchestra, fondata nel 1936 da Bronislav Hubermann e Arturo Toscanini in Palestina. I musicisti, appreso quanto avveniva in Europa, si rifiutarono di suonare su strumenti fabbricati in Germania. Un ultimo gruppo vede una serie di violini decorati con la Stella di David, appartenuti a musicisti ambulanti klezmer, e suonati nei matrimoni e nelle feste.Tredici di questi strumenti (dodici violini e un violoncello) hanno suonato il 24 gennaio 2014, per la prima volta in Italia, al Parco della Musica di Roma in occasione della Giornata della Memoria, presso l'evento "I Violini della Speranza", organizzato dall’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane insieme all’Università Ebraica di Gerusalemme e BrainCircleItalia.

Sul palco importanti concertisti, tra cui la giovane e affermata talento italiano Francesca Dego, di madre ebrea (46 membri della sua famiglia non fecero mai ritorno da Auschwitz). Il violoncellista tedesco Alexander Hülshoff suonerà invece il violoncello appartenuto a David Popper, figlio del Cantore del Ghetto di Praga, trucidato dai nazisti il 19 gennaio 1945.
Storie, religioni, età diverse riuniiti simbolicamente insieme, a testimoniare la capacità della musica di essere dialogo, anche quando la volontà dell’uomo la piega a motivo di divisione. Elie Wiesel ricorda come i nazisti proibivano agli ebrei di suonare Beethoven.

Se chiedete a Weinstein perché il violino ha sempre avuto un legame profondo con gli ebrei, risponde con un’altra domanda: «Hai mai provato a scappare con un pianoforte?». «Della Shoah abbiamo le immagini ma non la voce – dice la giornalista Viviana Kasam, ideatrice con Marilena Citelli Francese dell’evento –. Lo yiddish, la lingua parlata da 11 milioni di ebrei nell’Europa dell’Est, è stata cancellata da un giorno all’altro. Ci rimangono le voci di questi violini». Voci di violini poveri e popolari, il cui suono però oggi brucia in profondità ben più di quello di strumenti dal grande blasone. Reliquie di un incomprensibile martirio, le loro casse armoniche vibrano di memoria. Ecco perché l’attrice Manuela Kustermann racconterà al pubblico le storie di questi strumenti. Come quella del "violino di Auschwitz", dove saper suonare poteva significare una chance di sopravvivenza. Nel 1946 Abraham Davidovitz, un sopravvissuto dell’Olocausto, lo ricevette in dono da un compagno di prigionia che non poteva più imbracciare lo strumento che gli aveva di fatto salvato la vita. Dopo 65 anni, duranti i quali rimase chiuso in un armadio, i figli di Abraham decisero prima di donarlo allo Yad Vashem ma dopo aver compreso che il silenzio non era il suo destino, lo hanno portato a Weinstein. Il "violino di Drancy" proviene invece dal campo di internamento della cittadina presso Parigi, dove 65mila ebrei francesi attesero di essere trasportati con i treni bestiame nei lager tedeschi. Solo in duemila tornarono. Durante una sosta per un guasto al convoglio un braccio si sporse da una feritoia gridando a un operaio: «Prendi questo, non ne avrò bisogno dove sto andando». Un violino disprezzato perché considerato senza valore economico da proprietari e liutai, finché un giovane apprendista francese, conosciutane la storia, commosso lo restaura negli anni ’90. Infine, il "violino Krongold/Zimmerman", emigrato con il suo proprietario in Uzbekistan e poi arrivato a Weinstein nel 1999. Quando Amnon lo aprì, vide che era stato costruito dal liutaio che insegnò il mestiere a suo padre in un’Europa dove ancora la musica era un’arte di pace.
Bisogna poi ricordare “Il violino della Shoah” lo strumento musicale salvò la vita ai fratelli Levi, grazie alla loro passione per la musica. Il violino, quando l'ho ritrovato, era in condizioni praticamente perfette – aggiunge il collezionista -. Una volta che Enzo lo
riparò, vi inserì i suoi ricordi: vi mise la frase in tedesco, che è un inno alla musica, e vi incise il suo numero di matricola ad Auschwitz. Purtroppo anche lui si suicidò alcuni anni più tardi».
C'è da dire che il suicidio tra i superstiti dei campi di concentramento è un tema molto ricorrente. Quando, nel 1945, vennero distrutti i recinti intorno ai lager nazisti si disse che era finito un incubo. Quel che era finito in realtà era l’incubo reale ma quel che iniziava era il dolore personale e i molti incubi che hanno tormentato, e che continuano a tormentare, le notti dei sopravvissuti alla Shoah. I terapeuti che avevano in cura figli di sopravvissuti riportavano la sensazione di parlare con persone morte: questi figli avevano dentro di sé le voci e i gesti di morti, vivevano e sognavano gli incubi dei genitori.
La quantità di spazio psicologico che il passato del genitore occupa nell’esistenza attuale del figlio è tale che deve rinunciare al diritto di esistere nel proprio presente: il trauma non riguarda soltanto l’accaduto, gli avvenimenti in sé, ma anche le reazioni indescrivibili dei genitori allo sterminio di cui sono stati testimoni e che non hanno potuto impedire. Il figlio avverte il terrore, la vergogna e il senso di colpa dei genitori per un qualcosa che avrebbero dovuto impedire , senza esserci riusciti; finché non riesce a traghettare il genitore fuori dalla realtà dei campi di concentramento il figlio di un sopravvissuto non si sente autorizzato a vivere la propria vita.

Cerutti è un collezionista di strumenti musicali e da qualche anno ha messo gran parte della sua collezione a disposizione del museo civico Ala Ponzone di Cremona. I suoi strumenti vengono utilizzati in molti concerti celebrativi in giro per il mondo. “Il violino della Shoah” è recentemente stato usato anche in un’esibizione in Costa Azzurra, in quanto la casa produttrice è proprio francese.
«Quando, come me, si arriva a una certa età– conclude Cerutti – si arriva anche alla convinzione che quanto hai ricevuto, ottenuto, collezionato, deve essere a disposizione di tutti, non servirebbe a nulla tenerlo chiuso in quattro mura. Bisogna ricordare».
Nel marzo scorso davanti al Campo di Auschwitz è stato creato un altare della memoria e lì quel violino antico e sofferente ha ripreso a suonare. Ha portato oltre la bruma le sue note dolenti fino a ricongiungersi con le ceneri nel vento di oltre un milione di ebrei uccisi nel lager durante gli anni devastanti della seconda guerra mondiale.

Il 23 marzo 2017 dal Binario 21 della Stazione Centrale di Milano è partito il Treno della Memoria, dallo stesso binario da cui partirono i treni degli ebrei deportati nei campi di concentramento. Per moltissimi di loro non ci fu ritorno. Durava 5 giorni quel viaggio straziante e tragico, cinque giorni di terrore incontro all’inferno.
Insieme alle autorità, alla cittadinanza e a tutte le rappresentanze sindacali, che organizzano ogni anno il viaggio, c’era anche il giornalista free lance e fotografo Giorgio Fornoni. Con lui anche le varie classi degli istituti superiori provenienti da tutta la Lombardia con i loro insegnanti, uniti a dieci studenti del liceo Lotto di Trescore. Centinaia di studenti e professori in silenzioso omaggio al sacrario degli innocenti caduti.

Davanti ai cancelli di Auschwizt, col violino della Shoah, la straordinaria Alessandra Romano, prima timidamente e poi con enfasi solenne, ha suonato il “Nigun”, coè la preghiera ebraica del mattino. Al termine un’ultima nota dolorosa e quasi di rabbia, che nel crepuscolo si acquietava fino a trasformarsi in goccia di speranza, in un singulto di pace. Il Violino della Shoah, che accompagnava con il suo doloroso e affranto abbraccio gli ultimi passi dei condannati nelle camere a gas, ha ripreso a sorridere.

 

Fonti: estense, lanuovaferrara , avvenire .varesenews ,anasitalia

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